Un gigante.

Mi sono chiesto per anni, il motivo per il quale, nel tormentato e rapidissimo avvolgersi nella spirale implosiva della Prima Repubblica; al tempo in cui i sindaci venivano scelti dai partiti nel Consiglio comunale e non direttamente dagli elettori nelle urne, un Sindaco come Pietro Leonida Laforgia, durato in carica poco meno di sei mesi, dal 28 gennaio al 6 settembre 1993, rimanesse così fervido nella memoria dei suoi concittadini, amato e rispettato da tutti, anche dai suoi più acerrimi avversari politici.

Non potevo effettivamente capire quel carico di emozione e affetto che coinvolse Bari alla notizia della prematura e imprevista scomparsa di Laforgia, quando ormai era divenuto Senatore della Repubblica da indipendente nelle liste del PdS e che ancora oggi lo circonda; prima di trovarmi a mia volta nel ruolo di amministratore pubblico locale.

Gli amministratori di una media città come Bari, infatti, sono il terminale delle ansie, delle aspirazioni, delle preoccupazioni e dei bisogni dei propri concittadini. Sono loro i primi politici cui ci si rivolge per trovare risposte e, nell’accelerazione della crisi che il biennio tragico 1992-1994 impresse alla storia nazionale; in quel pendolo drammatico che si apre con l’arresto del Presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, Mario Chiesa, il 17 febbraio 1992 e la successiva valanga giudiziaria di Tangentopoli; continua con la strage di Capaci del 23 maggio 1992 in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la loro scorta per mano mafiosa e si chiude con l’elezione di Silvio Berlusconi a Premier il 28 marzo 1994 con il naufragio della “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto e della sua alleanza progressista; figure solide nel fisico e nella tempra morale come Pietro Leonida Laforgia hanno rappresentato un simbolo di fortezza dei principi che sembra scolpito nella pietra stessa di cui è fatta la nostra città.

Certo la sua biografia è potente e parla di una generazione di meridionali, nata tra le due guerre mondiali, capace di riscattarsi dalla marginalità geografica ed economica, grazie allo studio, all’impegno professionale e politico, alla dirittura morale, al servizio nei confronti della propria comunità.

Allora, l’ascensore sociale funzionava, tanto da consentire al settimo di otto figli di un medico condotto di San Pietro Vernotico, di arrivare a rappresentare il Popolo italiano in Parlamento.

Ecco, se devo identificare una traccia della eredità altissima che arriva a noi da Pietro Leonida Laforgia, e di cui si ritrova poi testimonianza viva nella vicenda dei suoi figli Nicola e Michele e dei suoi tanti nipoti, è quell’attitudine da “servitore civile” pronto ad assumere la difesa dei più umili tra gli umili, a intestarsi battaglie nei tribunali a sostegno di studenti, lavoratori e sindacalisti già dagli anni ’50 quando la Magistratura e la Giurisprudenza, non erano ancora del tutto allineate ai principi Costituzionali; a scegliere sempre il crinale più complesso, la battaglia più ardua e temibile – ad esempio divergendo dalla linea trionfante di Craxi nel Partito socialista presso l’hotel Midas di Roma nel 1976 sino ad allontanarsi dallo stesso partito – la strada più impervia anche sul dorso di una politica che consentiva il pluralismo – molto più che in questi tempi di unanimismo imbelle e impaurito -, ma non perdonava i borghesi che si impegnavano al fianco del proletariato.

Quella idea per la quale il servizio alla società non si esaurisce nella professione o nel volontariato, ma esonda in ogni ambito della vita, nella cura delle relazioni, nell’attenzione ai più umili, nel servizio civile permanente. Guidati dalla bussola del diritto come pratica di giustizia sociale, non solo come disciplina forense o didattica.

Sino ai gesti eclatanti e nobili, sia pure amministrati con il tatto del grand’uomo, quando Laforgia  rifiutò di stringere la mano di Francesco Cossiga, Capo dello Stato emerito, giunto a Bari per il memorabile raduno degli alpini (che festa quei giorni pennati per le strade di Bari!), per solidarietà al suo collega ed ex amatissimo Sindaco, Enrico Dalfino, che disobbedì all’ordine di rinchiudere gli albanesi della Vlora nello stadio della Vittoria, come fosse un campo di concentramento nell’agosto 1991, al tempo in cui Cossiga era Presidente.

Una nobiltà dei gesti e una solidarietà tra classi dirigenti che, allora, venivano ancora rispettate anche dai cittadini che riconoscevano in quelle figure, la guida morale della comunità.

Un esempio di umiltà e di altezza etica e amministrativa, cui non dovremmo mai cessare di guardare con tutto l’impegno possibile.

Articolo apparso su La Repubblica – Bari, il 14.12.2018

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