Dove va l’asse del mondo. E noi.

La storia dell’umanità è la storia dello sviluppo delle città. Entro il 2025, secondo lo studio McKinsey sul mondo urbano (“Urban world: cities and the rise of the consuming class”), circa un miliardo di persone si sarà mosso verso le città. Di questi circa 600 milioni avrà scelto una città dei paesi in via di rapido sviluppo, contribuendo alla loro crescita e alla redistribuzione globale della ricchezza. Se nel  1965 a vivere nelle città era solo un terzo della popolazione mondiale, nel 2025 saranno il 66% degli abitanti del pianeta. E, ancora, delle 600 città globali, capaci cioè di offrire servizi evoluti e occasioni di lavoro, circa 440 saranno collocate in paesi emergenti. Che avranno così attratto capitali di investimento e imprese pronte a insediarsi nelle loro vicinanze.
ll bilancio economico globale si sta spostando, infatti, verso est e verso sud, in direzione di città emergenti: nuovi prodotti e nuovi servizi, anche culturali, andranno creati per offrire a questa massa impetuosa di persone di avervi accesso. I centri urbani consumano risorse e producono più rifiuti, ma richiedono anche maggiori servizi, tecnologie, opportunità e, in sintesi, determinano il miglioramento della qualità della vita perché i servizi vengono resi collettivi e organizzati meglio.
Per questo insieme di ragioni, l’Unione europea parla da tempo di “smart cities” e cerca di combattere il divario digitale, per favorire un continente più inclusivo e sostenibile.
Viviamo il più rapido slittamento del centro di gravità del mondo che la storia umana abbia mai conosciuto e la devastante crisi economica che morde la vita dal 2008, soprattutto nelle aree periferiche dei paesi sviluppati, non ha ancora mostrato i suoi artigli più velenosi.

Per questo occorre domandarsi: la Puglia e il Mezzogiorno, in questo scenario, dove si collocano?
Secondo l’Economist, a fronte della crescita del PIL italiano dello 0,3% nel primo trimestre del 2015 dovuto all’euro debole, al calo del prezzo petrolifero, alle riforme e al quantitative easing della BCE, il Sud ha perso ancora il 7%, contraendosi più del doppio del centro nord nell’ultimo biennio. “Dei 943mila italiani che hanno perso il lavoro tra il 2007 e il 2014, il 70% vive al Sud”. “Il calo della domanda è aggravato dal basso tasso di natalità del Sud (1,4) e dall’emigrazione verso il nord e i paesi stranieri, mentre al Nord la fertilità è aumentata passando al 1,4 del 1980 all’1,5 attuale.” Questa perdita di capitale umano è devastante, proprio nel momento in cui, annunciandosi la ripresa, avremmo più bisogno di fare un salto di qualità. Infrastrutture fatiscenti, giustizia e burocrazia lente, corruzione, difficoltà di accesso al credito e lontananza dai mercati più maturi, sono le ragioni prime del nostro ritardo. Ma, più di tutti, c’è un dato che davvero mi fa infuriare: fatti 100 i turisti stranieri che giungono in Italia, solo 15 scelgono di visitare il Sud.

Sebbene nel mezzogiorno la Puglia sia la più dinamica e si confermi in crescita  rispetto al turismo, la storica incapacità di sviluppare impresa fa pagare al Sud il dazio più rilevante. Noi attraiamo turisti e potenziali investitori, ma non sappiamo trattenerli con un sistema di offerta serio e credibile.
Penso, infatti, che il vero strumento per creare reddito siano le imprese e non le Pubbliche amministrazioni. Queste devono creare le condizioni perché le imprese possano aggredire mercati innovando prodotto e processi, formare i propri addetti, sviluppare nuove idee, ottenere facilmente un giudizio civile o un credito, partecipare al progresso del territorio. In tale contesto la cultura dev’essere il perno intorno al quale far girare tutto il nostro sistema di attrattività: perché cultura significa capitale umano formato e colto, cioè coltivato, e dunque abile a comprendere la realtà e i suoi cambiamenti. E cultura dev’essere impresa, perché dopo aver tanto investito nell’ultimo decennio a livello regionale, mi pare evidente che lo sbocco naturale siano le imprese culturali e creative, le uniche in grado di trasformare un evento in una linea di prodotti e servizi.

A Barcellona il solo Primavera sound, festival di musiche indie rock ed elettronica, che dura pochi giorni sulla barceloneta, sviluppa 90 milioni di spesa. 90! Ma quello non è un banale festival. È un marchio di qualità, dietro e intorno al quale ruotano 27 dipendenti a tempo pieno. Cosa c’è intorno alla “Notte della taranta”? Io penso sia il tempo di trasformare quanto di straordinario è stato fatto per la cultura e il turismo in Puglia in un sistema di impresa maturo e competitivo.
Tanto vale soprattutto perché noi non siamo in grado di garantire città attrattive su scala planetaria, ma possiamo sopperire con l’ampiezza di scala della città metropolitana di Bari e con la qualità della vita – marginale geograficamente, ma piena di legami sociali e culturali – della periferia globale che la nuova redistribuzione mondiale ci ha consegnato.

 

Articolo apparso sul quotidiano Corriere del mezzogiorno di oggi.

 

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