Arrivederci Venezia.

Sono a Toronto per il Festival del cinema.

Si chiama Tiff e davanti al suo marchio, all’ingresso della strada chiusa al traffico che rappresenta l’epicentro di tutto, le persone si fanno i selfie o chiedono alla miriade di giovani volontari amici del festival, di scattare fotografie.

Mentre nei prati dinanzi alle case, indisturbati scorazzano gli scoiattoli alla ricerca di ghiande.

Ho capito perché Toronto ha spazzato via, chissà se definitivamente, la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Per fare un grande festival, ci vuole una grande città. Non si discute. Non ci sono alternative.

Costi accessibili e per tutte le tasche (dai professional ai talent, dai giovani appassionati ai cinefili incalliti), strutture permanenti dedicate con proiezioni di qualità eccelsa, un intero palazzo del cinema di 6 piani con servizi permanenti realizzato grazie a sponsor privati, istituzionali e a singoli donatori; un sistema di accrediti funzionale e molto costoso che crea due canali: quello dei cinefili e quello dei professionisti.

Se appartieni alla seconda categoria la tua azienda potrà pur pagare 600 dollari canadesi e consentirti così, di accedere alla visione di 400 titoli (tanti ce ne sono in cartellone) da acquistare, semplicemente negoziando con il contatto del venditore inserito in catalogo. Se sei spettatore, potrai pur fare la fila e procurarti un biglietto. Le sale non mancano.

Qui non si fanno troppe paranoie come il vecchio romanticismo italiota che difende le monosale e non si cura di moltiplicare gli schermi con le multisale di città, bloccandone la crescita con leggi regionali idiote e conservatrici (30 km di distanza tra una multisala e l’altra, puah…).

Così mi capita di assistere, con il mio accredito P&I (press and industry) che mi hanno donato quelli del Tiff, alla visione di 4 film in 7 ore, uscendo da una sala ed entrando in un’altra, senza mai – dico mai – avere paura di non trovar posto, nonostante la grande affluenza di pubblico mondiale, nell’enorme Scotiabank. 12 sale e overdose di film. Con la possibilità di ricaricare telefoni e tablet dalle colonnine. Con i sellers che ti avvicinano discretamente per chiederti se il film ti è piaciuto e se ti interessa acquistarlo per il tuo territorio. Qui tutti parlano inglese. Ci si capisce così.

Altro che Venezia!

In pochi passi puoi mangiare canadese, italiano, americano, francese, indiano, junk o sofisticated, vegano o carnivoro e farlo in qualunque momento, di mattina presto o di sera tardissimo.

L’hotel ha un costo più che accettabile e l’euro forte (1,40 la quotazione media) consente di spendere davvero poco.

E se la sera vuoi staccare, puoi fare pochi metri e visitare il museo di arte contemporanea o assistere a un concerto. O vedere l’artista che decora una parete, appeso a una corda. O suonare il piano o giocare a scacchi in pubblico. O berti un sidro con pochi spiccioli. Invece che essere taglieggiato dai quattro commercianti farabutti del Lido. Che per anni hanno profittato del monopolio in cui si muovevano.

Quale sarà la formula del futuro?

Può un festival sopravvivere alla sua stessa gloria con il suo solo nome e il posizionamento fortunato a fine agosto nell’isola della città più bella e scomoda del mondo? Queste domande se le fanno presso il Ministero dei Beni Artistici Culturali e del Turismo? O continuerà l’emorragia lenta e inarrestabile che condurrà Venezia al livello di Pesaro, mèta di cinefili incalliti meravigliosi, ma non del mondo che i film li pensa, li fa, li distribuisce, li vende e li compra?

Succede quest’anno che Piers Handling, direttore del Tiff, annunci di non inserire nel suo festival non competitivo – va ricordato – i film che sono a Venezia nella sua prima settimana per mettere dinanzi al dilemma – to be there or not to be there – i tanti produttori e distributori di film nord e sud americani. I quali, ovviamente, hanno scelto nettamente di essere qui e non in Italia. Cagionando un danno enorme all’Italia.

La Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia molto presto avrà senso esclusivamente per gli europei e il far east. E rimarrà confinato nelle tappe dell’universo arthouse.

Ma così non si può sperare che il rutilante mondo antico delle passeggiate dei divi sulla fine sabbia dell’Excelsior torni in auge presto.

Perché il mondo viaggia su rotte troppo più rapide della stoltezza istituzionale di un Paese che si permette il lusso velleitario di tentare un mercato fallimentare e ridicolo a Venezia, mentre altrove nemmeno lo annunciano il mercato dei film. Ma lo fanno nelle cose, dentro le pieghe di un festival che rende felici tutti: spettatori, produttori, distributori, venditori. E il Sindaco della città, i cui cittadini hanno visto crescere un “festival di festival” dal 1976 a oggi, sino al Bell Light Box di sei piani e tante ambizioni.

Mentre io sento ancora ardere la ferita di un Lido pressoché deserto. E l’ineffabile Baratta annuncia, anche quest’anno, numeri sempre più in/credibili. Nel senso che nessuno gli crede più, perché tutti hanno occhi per vedere e orecchie per sentire come si declina la parola “declino”.

Arrivederci, Venezia.

 

 

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