Sei date e una traccia di impegno collettivo.

A Bari è successo che il miglior candidato e il più votato tra tutti in Italia, nelle liste di “Liberi e Uguali”, una lista elettorale debolissima, nata dalla somma di quattro fallimenti (Articolo 1, Mdp, Possibile e Si), non sia stato eletto a causa di una legge elettorale perversa e cattiva, che nega rappresentatività.

Si tratta di Michele Laforgia, avvocato penalista, famoso per aver seguito processi e cause importantissime, animatore dell’Associazione “Città plurale” che ha rappresentato un importante luogo di stimolo e confronto per il centrosinistra pugliese degli anni ’10, persona retta e stimatissima in città e ovunque in Italia. Quasi 9.000 voti nel collegio uninominale sono un patrimonio che fanno subito pensare a utilizzi personalistici e a ricadute amministrative.

Ma Michele non ha interessi personali. Non vive la politica per bisogno, ma la serve per passione e coerenza.

Così, insieme a chi gli è stato al fianco dall’inizio, valuta di non abbandonare l’impegno e di varare una associazione che si occupi di elaborare una proposta per la sinistra che dovrà rinascere e che tenga unita una comunità, ampia, plurale, in parte nuova, che si è ritrovata intorno a lui.

Ho moltissime riserve sui gruppi dirigenti e sul percorso politico di LeU. Non ho tessera di partito da anni, sono, da sempre, un libertario di sinistra. Ho un mio percorso pieno di dubbi e di macerie. Come tanti. Non amo giudicare i percorsi politici degli altri. Ho visto tanti “duri e puri” a parole, accettare posti fissi pubblici senza concorso e continuare a criticare tutto e tutti, senza pietà, né senso del ridicolo.

So solo che la politica è piena di svolte, di snodi, di curve e rettilinei, tranelli e imboscate. Come la vita. E come lei, ti pone dinanzi a scommesse, speranze, sogni infranti, delusioni. O errate valutazioni.

Ma la dignità del proprio pensiero, la passione per l’impegno civile, la rettitudine, pur negli errori, bé quelli non li perdi mai, se hai una cultura politica.

La parola, insomma, il cuore stesso della Politica, non può togliercela mai nessuno.

Per questo all’assemblea dal titolo “Che fare?” ho ritenuto di intervenire a braccio con un ragionamento compresso in 5 asfittici minuti.
Qui la diretta social.

Ragionamento che partiva da questi miei appunti.

Per completezza, posto qui di seguito quanto ho scritto:

 

Tre date degli anni ’70, per capirci qualcosa. Secondo me.

1971, Richard Nixon dichiara superati gli accordi di Bretton Woods, che dal 1944 avevano rappresentato la costituzione finanziaria della ricostruzione postbellica, con la parità convertita in oro. Da allora la conversione sarà in dollari. Gli Usa svalutano la propria moneta, si preparano nuovi accordi nel WTO e inizia la globalizzazione.

1973, con la guerra del Kippur (Egitto e Siria che attaccano Israele) i paesi dell’Opec innalzano il prezzo del petrolio. Crescono i costi di produzione industriale, salta il compromesso tra Capitale e Lavoro, su cui si è retta la crescita poderosa che dagli anni ’50 ai ’60, aveva portato un Paese agricolo e disunito, a conoscere una formidabile crescita economica, i cui frutti venivano redistribuiti, non solo accumulati dalle imprese.

E si redistribuiva, perché parallelamente cresceva un movimento politico-culturale, interpretato non senza contraddizioni tra le sue componenti dal più grande Partito Comunista dell’Occidente che dal 22,6% delle elezioni del 1953 passa al 34,4% del 1976.

Il Capitalismo funziona così. Lo aveva ben capito Carlo Marx, nel suo Capitale. Il capitalismo si allarga, invade i legami sociali, cambia la testa stessa delle persone, se non trova un avversario che lo contenga, lo contrasti, lo critichi.

1978, con la morte di Aldo Moro si chiude la stagione del cosiddetto “Compromesso storico”, teorizzato da un fondamentale ciclo di tre articoli apparsi nel 1973 sulla rivista Rinascita, a firma del neo segretario del PCI, Enrico Berlinguer, che riflette sui fatti del Cile (dove il presidente Salvador Allende, democraticamente eletto, viene destituito da un colpo militare finanziato dagli Stati Uniti e morirà, forse suicida, difendendo il Palazzo della Moneda, pur di non cadere in mano nemica). Nella sua riflessione, raccolta da Aldo Moro in qualità di Presidente della Democrazia cristiana, Berlinguer spiega che, pur vincendo con un ipotetico 51%, il solo Partito comunista non avrebbe potuto reggere l’urto della Guerra fredda (l’Europa era allora divisa in sfere d’influenza e l’Italia era sotto l’ombrello della NATO) e che sarebbe stato dunque necessario allargare le basi della democrazia, dialogando con l’altro grande partito popolare, la DC, per assicurare uno sbocco alle lotte sociali allora fortissime nel Paese.

L’omicidio di Moro, operato dalla Brigate rosse, ma largamente favorito dalla disorganizzazione dello Stato, dall’inquinamento dei servizi segreti, dalla scelta sbagliata della linea della fermezza nelle trattative (fortemente tenuta da Giulio Andreotti e anche dal PCI) e dal pesante interesse delle cancellerie americane, russe e israeliane che, per motivi diversi, erano per la fine della stagione dell’apertura a sinistra, che Moro aveva propugnato in tutta la sua vita politica.

Si aprono così gli anni ’80 italiani, con il crollo elettorale del PCI (nel 1987 calerà al 26,6%) e l’affermazione del PSI, guarda caso abilmente guidato sulla linea della trattativa con le BR durante il caso Moro, dal giovane neo-segretario Bettino Craxi, che degli anni ’80 sarà il simbolo.

Veniamo all’oggi.

“Al PIL e all’occupazione italiana – dice Stefano Balassone, ed io concordo – manca da decenni la quota generata dalla spesa pubblica perché il Debito non lascia margini per farvi ricorso. Il Debito esplode negli anni ’70 e ’80, per spegnere la guerra civile a bassa intensità ereditata dalla malcerta unificazione nazionale ed esacerbata dalle ristrutturazioni aziendali indotte come detto dalla crisi degli accordi monetari di Bretton Woods e dalla successiva esplosione dei prezzi del petrolio.”

Per capire la Politica, insomma, bisogna sempre capire cosa accade nei processi sociali ed economici, guidati dalla necessità di accumulare Capitale.

“La scelta politica dei Governi degli anni ‘80, infatti, al servizio dell’urgenza d’allora, fu di soddisfare la domanda di consumo di tutti, ricorrendo al Debito pubblico.”

Il patto era: vi do soldi pubblici, mi date consenso.

Così è saltata la fiducia nei confronti della Politica.

Appena non è stata più in grado di garantire le risorse.

“Penalizzando l’uso del Debito per investire, lo sviluppo italiano successivo fu condannato a rallentare rispetto agli altri Stati Europei: ecco perché l’Italia “cresce meno degli altri” e più degli altri soffre delle crisi.”

E’ negli anni ’80 che la mia generazione ha iniziato a perdere. Dopo il boom economico degli anni ’60 e ’70 del Novecento italiano, la strategia della tensione (Bologna, 2 agosto 1980 è lo spartiacque finale di una stagione che s’apre il 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana di Milano), con servizi deviati e destra neofascista posti al servizio del quadro destabilizzante e le Brigate rosse, ampiamente cavalcate dai ceti dirigenti e lasciate crescere indisturbate sino all’omicidio Moro, inizia la restaurazione capitalistica. Debito pubblico a gonfiare fittiziamente una economia incapace di modernizzarsi veramente.

Ma altre tre date, sono necessarie, sempre per capirsi.

La prima è il 20 luglio 2001, quando Carlo Giuliani, giovane militante altermondista, viene ucciso con la pistola d’ordinanza da un giovane Carabiniere a Genova, dove centinaia di migliaia di giovani europei si erano dati appuntamento per manifestare conto i G8.

Presidente del Consiglio italiano era Berlusconi, Fini era in cabina di regia per la sicurezza in Prefettura, in piena zona rossa.

L’indomani, centinaia di migliaia di persone accorrono a Genova, per una delle più grandi ed emozionanti manifestazioni popolari degli ultimi trent’anni. Le forze dell’ordine, con il pretesto di respingere i “Black Block”, disperdono i manifestanti con i lacrimogeni. La notte poi, come racconta mirabilmente il film “Diaz” di Daniele Vicari, una violentissima retata della Polizia arresta e massacra di botte chi era rimasto a Genova per dormire in una scuola, prima del rientro a casa.

La mia generazione ha così avuto la sua Valle Giulia. Ma ha perso, a differenza dei sessantottini romani.

“Voi 8, noi 6 miliardi” era lo slogan. Avevamo già capito tutto.

Ma, pochi giorni dopo quel luglio 2001, un commando di terroristi perfettamente addestrati, dirotta tre aerei schiantandone due contro le Torri gemelle simbolo dello skyline di New York, cagionando oltre 3.000 vittime innocenti, uno contro la sede del Pentagono.

Le immagini di uomini inermi che, terrorizzati dall’idea di morire carbonizzati, preferiscono gettarsi nel vuoto dal centesimo piano, ci perseguitano da allora.

Chi rivendica gli attentati è Osama Bin Laden, un miliardario sunnita leader del movimento Al Quaeda. Non un capo di Stato.

Eppure George W. Bush, Presidente degli USA, petroliere texano, non avvia una riflessione sugli squilibri economici globali. No. Lui dichiara guerra dapprima all’Afghanistan, poi all’Iraq.

E inizia un ciclo infinito di guerre globali, guerre locali e crisi dei debiti pubblici.

Nel frattempo, in Nord America, le banche continuano a finanziare i debiti privati, prestando denaro a tassi sempre più alti, anche a chi non può permettersi una casa, una macchina o una villa al mare. Sono i “mutui subprime”.

Il 15 settembre 2008 la famosa banca nordamericana Lehman Brothers fallisce, comunicando debiti per 768 miliardi di dollari. Quasi la metà del PIL italiano. La bancarotta più grande della storia è la punta massima di una serie di fallimenti che avvia la più grande recessione della storia umana.

La crisi è stata ovunque di straordinaria profondità, ma in Italia, privi della funzione anticiclica della Spesa Pubblica, stiamo soffrendo moltissimo.

Le conseguenze economiche della globalizzazione e del contestuale straordinario incremento del progresso tecnologico basato sulla rete internet – nata come strumento militare, sviluppatosi come strumento libertario e con il tempo dominato dalle grandi corporazioni dei contenuti cui dobbiamo chiedere di cedere quote ai mercati locali – con l’affermarsi della realtà virtuale e della piena automazione dei modi di produzione, “lascerà attivi solo i lavori di assistenza personale, i ruoli più creativi e le mansioni di supervisione”, diceva il visionario Stephen Hawkings.

Solo gruppi molto ristretti di persone ricavano oggi enormi profitti con un numero molto ristretto di lavoratori. Siamo oltre la teoria marxiana del plusvalore. Siamo tornati ai tempi precedenti a Marx.

Siamo in una specie di neo medioevo in cui esistono re, vassalli, valvassori, valvassini e servi della gleba.

E non è una battuta. E’ l’analisi delle classi sociali che tutti i demografi ormai hanno censito essere 7, non più 3.

Nella crisi globale, i poveri delle aree rurali si spingono verso le città, spinti dalla speranza, vivendo nelle baraccopoli.

Sono i migranti economici che vogliono solo una redistribuzione dei redditi globali.

Il migrante è solo un rivoluzionario muto. Incapace di gridare slogan.

Eppure, come dice Slavoj Zizek, la sinistra ha curato essenzialmente i diritti civili, la destra quelli sociali.

Pensate alla Polonia, espansiva sui diritti dei lavoratori e restrittiva su migranti e diritti di cittadinanza.

Ecco perché anche in Italia l’emergenza si ripresenta sotto forma di “populismo” e di ribellione dei popoli contro le élite: anti tasse al nord, assistenziale al Sud.

E allora, “Che fare?”.

  1. Lavorare in una dimensione globale, di scala larga, per costruire innanzitutto l’Europa della sovranità popolare, non dei capi di Stato, arrivando all’elezione diretta del Presidente del Consiglio d’Europa e sconfiggere il rigurgito del nazionalismo;
  2. Costruire un pensiero critico del capitalismo finanziario e predisporre proposte per contenerlo, per limitarlo, per sconfiggerlo. Per esempio istituendo in sede di WTO un’etichetta etica su tutti i prodotti e i servizi del mondo;
  3. Lavorare per abbattere tutte le barriere interne ed esterne alle Nazioni e seguire Zizek quando suggerisce alla sinistra di superare l’ossessione per l’organizzazione locale e di puntare alla dimensione statale e internazionale (dovremmo invitare nei prossimi incontri gente come lui, come Varoufakis, ecc.);
  4. Costruire un’economia della condivisione, puntare sulla cooperazione;
  5. Porsi il tema dei limiti allo sviluppo, perché le sfide ambientali sono spaventose (pensate al bisogno di acqua, di cibo, al sovrappopolamento, alla decimazione delle altre specie, le epidemie e l’innalzamento dei mari dice Harari);
  6. Aiutare le persone a riqualificarsi, perché perderemo ancora altri posti di lavoro;
  7. Incoraggiare lo sviluppo globale, capendo che redistribuire significa anche guadagnare di meno qui, per far vivere meglio qualcuno in Africa (nuovo modello di sviluppo);
  8. Pensare all’associazione “Spazio pubblico” come un format, sì, un format. Per diffondere luoghi di elaborazione, di condivisione, di pratica, di crescita politica delle masse e dei ceti dirigenti della sinistra futura;
  9. Favorire pratiche politiche di aiuto concreto a chi soffre, tornare al sudore dell’impegno politico.

 

C’è un grande lavoro da fare.

La Politica.

Auguri a noi tutti.

 

Bari, 20 marzo 2018

Assemblea “Che fare?”

 

Silvio Maselli.

Leave a Reply