La manovra del governo. Di destra o di sinistra?

Mi sono applicato a studiare l’aggiornamento al Def e l’annunciata manovra del Governo per il prossimo triennio.
Ecco i pro e i contro. E soprattutto una possibile risposta alla domanda: è una manovra di destra o di sinistra?

La nota di aggiornamento al DEF approvata dal Consiglio dei Ministri il 27 settembre scorso innalza nel Documento economico finanziario (DEF), l’asticella dell’indebitamento al 2,4%, liberando così 27 miliardi per la manovra.

Il rapporto deficit/pil sarà previsto al 2,4% nel 2019, 2020 e 2021.

In questa fase, dunque, il Governo ha deciso quanto indebitarsi per liberare risorse nel prossimo triennio ed ha annunciato ufficialmente che la futura manovra conterrà i seguenti punti:

- cancellazione degli aumenti dell’Iva previsti per il 2019;

- introduzione del reddito di cittadinanza, con la contestuale riforma e il potenziamento dei Centri per l’impiego;

- introduzione della pensione di cittadinanza;

- introduzione di modalità di pensionamento anticipato per favorire l’assunzione di lavoratori giovani (superamento della legge Fornero);

- prima fase dell’introduzione della flat tax tramite l’innalzamento delle soglie minime per il regime semplificato di imposizione su piccole imprese, professionisti e artigiani;

- taglio dell’imposta sugli utili d’impresa (Ires) per le aziende che reinvestono i profitti e assumono lavoratori aggiuntivi;

- rilancio degli investimenti pubblici attraverso l’incremento delle risorse finanziarie, il rafforzamento delle capacità tecniche delle amministrazioni centrali e locali nella fase di progettazione e valutazione dei progetti, nonché una maggiore efficienza dei processi decisionali a tutti i livelli della pubblica amministrazione, delle modifiche al Codice degli appalti e la standardizzazione dei contratti di partenariato pubblico-privato;

- programma di manutenzione straordinaria della rete viaria e di collegamenti italiana a seguito del crollo del ponte Morandi a Genova, per il quale, in considerazione delle caratteristiche di eccezionalità e urgenza degli interventi programmati, si intende chiedere alla Commissione europea il riconoscimento della flessibilità di bilancio;

- politiche di rilancio dei settori chiave dell’economia, in primis il manifatturiero avanzato, le infrastrutture e le costruzioni;

- stanziamento di risorse per il ristoro dei risparmiatori danneggiati dalle crisi bancarie.

Quali sono gli impatti macroeconomici previsti?

Secondo il Governo, più spesa pubblica, genererà maggiori investimenti privati (cittadini e imprese) e dunque un miglioramento delle entrate (iva, irpef, irap, ecc.).

Questo è certamente e teoricamente vero e, apparentemente, orientato ad un intervento di matrice Keynesiana.

“Di sinistra”, insomma.

Sulla carta.

Secondo la grandissima maggioranza dei docenti e degli analisti di macroeconomia, invece, la manovra rischia di deprimere l’economia del Paese e indebolirne la struttura generale.

Il professor Marcello Messori, docente di Economia alla Luiss e direttore della ‘Luiss School of European Political Economy’, ad esempio, dichiara:

“ll 2,4% rende difficilmente sostenibile in un’ottica di medio periodo il debito pubblico italiano. E questo determinerà un aumento degli spread e quindi dei tassi di interesse; fatto che indebolisce il settore bancario che detiene molti titoli del debito pubblico nei propri bilanci perché, con tassi di interesse più alti, diminuisce il prezzo dei titoli stessi e le banche potrebbero avere problemi nel rispettare le regole patrimoniali internazionali, trovandosi davanti all’alternativa: o ricapitalizziamo o riduciamo il credito. Ma visto che ricapitalizzare in questo momento è difficile, ci sarà una riduzione dei finanziamenti all’economia reale. Quindi il denaro costerà più caro e ci sarà meno liquidità e questo creerà molta incertezza che si propagherà al settore reale e si ridurranno gli investimenti. Proprio l’opposto di quanto si persegue a parole.

E’ tutto molto più complicato di quanto non faccia presumere l’automatismo ‘più spesa più crescita’. Ma non è che dobbiamo non eccedere la soglia del 2% perché ce lo chiede l’Europa: non la dobbiamo infrangere perché non è compatibile con la stabilità della nostra economia. E rendere più instabile un’economia significa punire le fasce più deboli della popolazione”.

Ora, per capirci, un po’ di definizioni:

Debito Pubblico è quanto lo Stato deve ai suoi creditori.

Tutti coloro (dai piccoli risparmiatori e alle grandi istituzioni finanziarie, agli Stati esteri) che comprando titoli di Stato finanziano la spesa pubblica.

Ad esempio la spesa per interessi sul debito nel 2016 è stata di 66,5 miliardi di euro. Il debito pubblico odierno è di circa 2.256 miliardi di euro!

Come cresce, secondo la dottrina economica, il debito? Per tre fattori: vecchi deficit, inflazione, poca crescita. Il debito pubblico, infatti è passato dal 54,5% del Pil del 1974 al 124,3% del 1994!

E’ la grande depressione che da metà anni 2000 a oggi ha falcidiato posti di lavoro e imprese, ad aver reso quasi impossibile riassorbire il debito pubblico nazionale.

La mazzata finale* ce l’ha data l’inserimento del vincolo di pareggio di bilancio in Costituzione (2012, Governo Monti) e l’insieme di misure imposte dalla Troika all’Italia con le misure introdotte da Monti a garanzia di debito e deficit. L’economia si è depressa, la struttura produttiva del Paese non è stata realmente modificata, Industria 4.0 ha effetti molto lenti, manca ancora un grande piano industriale dell’Italia, nell’ambito della più ampia competizione globale.

Secondo il Patto di stabilità, l’accordo-base dell’Unione monetaria europea poi recepito negli accordi di Lisbona, il rapporto tra il debito e il Pil non deve superare il 60%. Ciò serve a garantire che le risorse che arrivano, sotto forma di entrate fiscali, dall’economia reale – il prodotto interno lordo, appunto – siano sufficienti a finanziare la spesa pubblica e a coprire il debito dello Stato nei confronti dei possessori di titoli pubblici.

In Italia questo tetto è saltato da tempo e il debito è al 132,00% del Pil. Un parametro che ci porta pericolosamente vicini al default, cioè l’incapacità di ripagare il nostro debito pubblico.

Ah dimenticavo: la Germania è al 68,1%, il Regno Unito all’88,3%, la Francia al 96,5%, la Spagna al 99,0%, la Grecia al 180,8%.

Da notarsi che le passività finanziarie di una famiglia italiana sono sotto il 90% del reddito disponibile. Molto meno della media dell’Eurozona e ancor meno degli anglosassoni, con le famiglie USA e UK al di sopra del 100%. Ciò significa che gli italiani sono molto oculati nella gestione dei propri conti familiari (sebbene questa enorme massa di ricchezza finanziaria pari a circa 2.200 miliardi di euro, viene investita molto male, visto che 1.300 miliardi sono bloccati in conti correnti bancari e postali) e pochissimo oculati nella gestione del debito comune statale.

Deficit pubblico, invece, è il “rosso” dello Stato, cioè la differenza tra quello che incassa e quello che spende.

Sempre secondo il Patto di stabilità europeo questo rapporto non dovrebbe superare il 3% e in Italia è arrivato sino al 3,9%.

Lo spread é il termometro di un debito malato: si tratta della differenza di rendimento tra il titolo pubblico decennale tedesco (Bund), considerato il punto di riferimento in Europa per la stabilità e l’affidabilità, e l’equivalente italiano (Btp). L’aumento dello spread in realtà è un indice di debolezza del titolo che offre un rendimento maggiore. Lo spread aumenta quando gli investitori preferiscono il titolo emesso da uno Stato più affidabile, in questo caso il bund tedesco. In pratica lo Stato italiano è costretto a promettere un rendimento maggiore per invogliare i mercati a investire nei suoi titoli. Al contrario, quando lo spread si riduce significa che la percezione della rischiosità del nostro paese da parte degli investitori sta diminuendo.

Ecco perché, al contrario di quello che pensano e dichiarano molte anime belle della sinistra (sinistra), tenere d’occhio gli spread, il debito e il deficit, non significa fare un favore alle banche o alle agenzie di rating “amerikane”, ma avere a cuore le giovani generazioni.

Ma vediamo adesso nel merito (seguendo la traccia di un ottimo articolo di Mario Deaglio apparso su La Stampa del 30.09.2018) chi veramente beneficerà di questa prevista manovra del nuovo Governo che ipotizza di trasferire denaro nelle tasche di alcune categorie di cittadini:

- circa 6.000.000 di pensionati minimi che saliranno a 780 euro al mese;

- 400.000 persone potranno andare prima in pensione, a quota 100, cioè con 62 anni+38 di contributi;

- agevolazioni alle partite iva con taglio irpef;

- rottamazione cartelle esattoriali;

- restituzione dei depositi presso banche in crisi (ma non v’è traccia degli interessi maturati negli anni buoni, con rendimenti faraonici…).

E gli altri?

Non sono previste agevolazioni dirette ad altre categorie di cittadini, in particolare della classe media, ma nemmeno nuovi servizi (asili, trasporto pubblico locale, scuole, ospedali, forze di polizia che saranno fortemente compressi o perlomeno non migliorati).

I più colpiti perché dimenticati da questa manovra, quindi, saranno i giovani con lavoro dipendente, le donne che avranno meno servizi, il Mezzogiorno di cui non c’è traccia nei documenti del Governo, soprattutto con riferimento ai suoi storici problemi infrastrutturali.

E’ rimarchevole l’assenza completa di incentivi agli investimenti produttivi, perché la crescita non è una priorità di questo governo, visto che non cambiano strutturalmente gli assetti produttivi del Paese e la capacità di consentire alle nuove generazioni di contare nel sistema produttivo e di creare nuove imprese o nuova forza lavoro adeguatamente formata.

Insomma, dire che questa manovra sia “di sinistra” è superficialmente strumentale e purtroppo non vero.

Questa manovra assomiglia molto, invece, alle due anime del Governo: da un lato il pauperismo dei 5stelle, dall’altro il nordismo populista della Lega che tutela gli anziani (che, ricordo, possiedono il patrimonio finanziario e immobiliare privato più ampio d’Europa) e gli evasori fiscali.

Lo spazio di mezzo, quello di chi traina la crescita e lo sviluppo del Paese e dà potere ai lavoratori (realizzando l’articolo 46 della Costituzione, ad esempio), è totalmente dimenticato.

Quando la politica di sinistra se ne accorgerà, sarà sempre troppo tardi.
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*Di questo parleremo una prossima volta…

 

 

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