Il Sud e la Politica.

Quando Gianfranco Viesti mi ha suggerito di leggere questo denso e documentato articolo di Marco Esposito, apparso su “Il Mulino”, non immaginavo avrei provato un’indignazione profonda.
Da oltre vent’anni, la questione meridionale è stata derubricata dal dibattito pubblico, surclassata da quella settentrionale.
Il Nord dell’Italia, sentendosi vessato da troppe tasse e troppe regole, si è dotato di una classe politica e dirigente capace di negoziare con Roma quote crescenti di reddito e di trasferimenti pubblici.

Il Sud, invece, non solo non è mai riuscito a esprimere un proprio grande leader azionale, ma ha scelto di gridare alla luna, mentre gli affari veri si fanno nelle commissioni paritetiche Stato-Regioni, in quelle parlamentari, nei tavoli ministeriali e a Bruxelles, come nelle altre sedi di negoziato internazionale.

E questo articolo lo spiega benissimo.

Ora tocca a una nuova classe dirigente meridionale tenere gli occhi aperti in ogni tavolo.
Mi auguro sinceramente che tutti i meridionali capiscano presto che, più che di grandi oratori, abbiamo bisogno di un diffuso senso del dovere e di una intelligenza collettiva da applicare ad ogni occasione in cui il Sud deve far valere le proprie ragioni.

Ce la faremo solo con questo rinnovato spirito di responsabilità.

***

di Marco Esposito.

Unire i puntini. E’ l’invito di Steve Jobs agli studenti dell’università di Stanford per scoprire guardando al passato il disegno che dà un senso alla vita. Qui si tenta un esperimento: scoprire i puntini in cui si sta concretizzando il federalismo in Italia, senza esprimersi sull’esistenza di un disegno. Ciascuno avrà modo di giudicare. Ma intanto i punti vanno identificati, operazione che nessuno ha tentato cosicché il Parlamento, al buio di informazioni, ha fatto ricorso alla forza di una norma – legge di bilancio 2018, comma 883 – per chiedere alla Commissione tecnica sui fabbisogni standard (Ctfs) una relazione entro l’anno sullo stato di attuazione del federalismo fiscale con “particolare riferimento ai livelli essenziali delle prestazioni e al funzionamento dello schema perequativo”. A nove anni dalla legge 42/2009 che attuava la riforma federalista inserita in Costituzione nel 2001, insomma, c’è il sospetto che qualcosa non stia filando per il verso giusto. In attesa della relazione della Ctfs, ecco alcuni elementi – una dozzina di punti – con informazioni finora mai presentate tutte insieme. Si avverte che nessuno dei fatti riportati è mai stato smentito, persino i più inverosimili, come che per costruire gli asili nido dove mancano si danno risorse in proporzione agli iscritti agli asili che ci sono.

 

Primo puntino: la buca nell’asfalto. In Italia ci sono 130mila chilometri di strade provinciali e la loro manutenzione lascia molto a desiderare. Colpa di tagli alle Province che la Corte dei Conti ha definito “manifestamente irragionevoli”, decisi con progressione aritmetica (un miliardo nel 2015, 2 miliardi nel 2016, 3 miliardi nel 2017), senza tenere conto del costo minimo indispensabile per la manutenzione: dai verbali della Ctfs risulta che nessuna stima è stata effettuata. E così per manutenere i 26mila chilometri di strade statali, gestite dall’Anas, ci sono 2,2 miliardi l’anno mentre per i 130mila chilometri di provinciali appena 700 milioni. In compenso si è stabilito al centesimo come devono ripartirsi i (pochi) soldi gli enti in base a una formula che tiene conto di tre indici: lunghezza delle strade, presenza di aree montane, traffico. Il primo indicatore è chiaro. Il secondo lascia un po’ a desiderare perché si sono utilizzate tabelle Istat dei tempi del fascismo relative alle valutazioni climatiche. Sul terzo indicatore, il traffico, la fantasia ha toccato l’apice: ha partorito non la conta del numero di autoveicoli circolanti, bensì quella del lavoratori del settore privato. Un insegnante, un infermiere, un carabiniere, uno studente che utilizza l’auto non consuma asfalto. Un lavoratore del privato, dipendente o autonomo, in un anno consuma 17,87 euro di asfalto anche se al lavoro va a piedi, in bicicletta oppure è un pendolare e utilizza i mezzi pubblici. I dipendenti pubblici sono distribuiti in modo più omogeneo sul territorio rispetto a quelli privati: come se l’obiettivo di chi ha messo a punto la formula fosse esaltare le differenze a favore dei posti dove c’è più lavoro. Un esempio: le strade gestite dalla Città metropolitana di Milano sono quasi 800 chilometri, tutte in pianura, mentre in quella di Napoli il doppio: 1.629 chilometri, “climaticamente” in pianura nonostante il Vesuvio e il Faito. A Milano circolano 2.285.787 autoveicoli e a Napoli 2.238.148, ma i veicoli non contano: si misurano gli occupati privati di Milano (1.385.701) e quelli di Napoli (557.790). Tirate le somme, Milano riceve 34mila euro a chilometro e Napoli 9mila.

 

Secondo puntino: i nuovi asili nido. Il 12 dicembre 2017, l’Istat diffondeva il rapporto sugli “Asili nido e gli altri servizi educativi per la prima infanzia” che confermava il fortissimo divario Nord-Sud nel livello dei servizi: spesa per bambino residente di 3.545 euro a Trento e di 19 euro a Reggio Calabria). Il giorno precedente, l’11 dicembre, il governo aveva approvato il primo riparto dei fondi previsti dalla Buona Scuola per costruire nuovi asili nido con l’obiettivo del “33% di copertura della popolazione sotto i 3 anni di età”. Finalmente una risposta nei tempi giusti, si dirà. Come sono stati assegnati i 209 milioni della prima annualità del fondo (che a regime sarà di 239 milioni annui)? La quota maggiore è stata distribuita in base al numero di bambini che frequentano gli asili nidi. Cioè si danno i soldi per costruire nuovi asili a chi gli asili li ha già. Per l’esattezza, il 50% del fondo è stato suddiviso in base agli iscritti agli asili di età da 0 a 3 anni, il 40% in base alla popolazione da 0 a 6 anni (la Buona scuola unifica il sistema dell’infanzia), il restante 10% in proporzione alla popolazione da 3 a 6 anni non servita da scuole materne statali. Ovvero di più al Nord, visto che le materne statali sono prevalentemente nel Mezzogiorno. Una ricostruzione della documentazione ha permesso di risalire ai passaggi che hanno portato a tale formula, i cui criteri sono stati approvati all’unanimità dalla Conferenza unificata Stato-Enti locali del 2 novembre 2017. Il ministero ha dapprima elaborato tre ipotesi di riparto nel complesso equilibrate; in una seconda fase le Regioni, rappresentate dalla Toscana, hanno chiesto una formula che premiasse chi avesse garantito più servizi in passato; il ministero ha diffuso la mattina del 2 novembre un’ipotesi che assegnava la metà dei fondi in proporzione alla percentuale di copertura del servizio. E così la piccolissima Valle d’Aosta si vedeva attribuire da quella voce del riparto 8,3 milioni contro i 5,3 della Lombardia e gli 1,6 milioni della Campania. Creata confusione al tavolo negoziale, spuntava una tabella di mediazione, diventata definitiva, che faceva recuperare qualcosa alle regioni del Sud ma che tagliava moltissimo rispetto ai riparto originario. Campania e Puglia si sono dette soddisfatte per aver limitato i danni.

 

Terzo puntino: i fabbisogni zero. Quando nel 2014 si è provato a definire il fabbisogno standard, comune per comune, del servizio di asili nido ci si è trovati di fronte a un dilemma. Calcolare il costo standard per ciascun bambino non è stato difficile, ma qual è il fabbisogno di ciascun territorio? Con l’obiettivo di copertura inserito nei target europei – il 33% dei bambini da 0 a 3 anni – si sarebbe dovuto ammettere che larga parte d’Italia è sotto standard e quindi la necessità di maggiore servizio andava finanziata. Se si fosse indicato lo standard nazionale, il 12%, si sarebbe detto ai comuni emiliani e toscani che spendevano troppo. Si è fatta così la scelta di sostenere che il fabbisogno corretto in Italia è esattamente pari al numero di bambini che va all’asilo. Non hai l’asilo? Non ti serve. E così nel 2015, primo anno di attivazione dei criteri, si è assegnato a Napoli un fabbisogno di asili nido pari a un terzo di Torino. E in città popolose come Casoria, Pozzuoli, Portici, Altamura si è indicato fabbisogno zero. Per il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dell’epoca si era trattato di “un errore tecnico grave, che correggeremo”. Eppure nel 2018 gli zeri sono ancora lì, in attesa che il Parlamento indichi i livelli essenziali delle prestazioni (i Lep) da garantire in modo omogeneo sul territorio. La Sose, società del ministero del Tesoro che elabora i conteggi, nella sua prima relazione al Parlamento sui Lep, ha suggerito di interpretare la Costituzione in modo che i Lep non siano uguali sul territorio ma differenziati in base alla domanda, in modo che in qualche posto si possa dare poco perché chi vi abita è abituato a chiedere meno.

 

Quarto puntino: vacanze come diritto costituzionale. Più sei generoso nei servizi, più fabbisogni ti vengono assegnati. La denuncia più esplicita è arrivata dall’Upb, l’Ufficio parlamentare di bilancio, che ha stimato come i sei sesti della solidarietà della ricca Milano sono indirizzati verso… Milano, cioè per garantire a se stessa gli alti livelli di servizio. Il criterio seguito per stimare i fabbisogni è stato considerare diritto minimo costituzionale non i bisogni dei cittadini bensì i servizi erogati da ciascun comune. Nel calcolo dei fabbisogni di servizi per l’istruzione – che valgono 4,1 miliardi – si fa il piè di lista della spesa storica nell’ultimo anno disponibile, che per il 2018 è il 2015. Ci sono comuni in Emilia che nel 2015 hanno offerto l’apertura anticipata e posticipata delle scuole e persino le vacanze estive in colonia. Tali servizi sono riconosciuti come fabbisogno essenziale, da garantire a spese di tutti gli italiani. Mentre in molti comuni del Sud, che non riescono a pagare neppure la mensa scolastica, si afferma che quel poco o niente è il giusto fabbisogno perché quella è la spesa storica e quindi quelli sono i diritti da garantire.

 

Quinto puntino: se l’autobus non passa. In analogia con il criterio degli asili, se il comune non ha il servizio di autobus la formula varata nel 2016 dalla Ctfs ne deduce che i cittadini di quel comune non hanno bisogno di trasporto pubblico locale. Il conteggio nel 2017 si è basato sulla rilevazione del 2013 e nel 2018 sulla situazione del 2015. Caserta, dove la società di trasporto pubblico c’era ma è fallita nel 2012, si è vista così assegnare dal 2017 un tondo zero. Il Parlamento, con un voto unanime della Commissione bilaterale per il federalismo fiscale, a metà ottobre del 2016 ha bocciato per i capoluoghi di provincia – oltre a Caserta c’è il caso di Cosenza, Trani e Vibo Valentia – questo criterio offensivo della logica e dell’equità. Ma la Ctfs ha replicato che loro prendono indicazioni dal governo e sono andati diritti per la strada: una strada nella quale se l’autobus non passa vuol dire che non serve.

 

Sesto puntino: più malattie, meno cure. Come si assegnano i soldi per garantire le cure a tutti gli italiani? La formula sui costi standard – scritta nel 2011 e in funzione dal 2013 – pesa la popolazione per fasce di età, favorendo i territori con più anziani. Con la Campania che, a causa di tale criterio, è ultima in Italia per riparto pro capite perché è ultima per speranza di vita. Se si contassero le malattie, il riparto cambierebbe. In un confronto Piemonte-Campania risulta evidente, in base alle rilevazioni Istat sulle «condizioni di salute» degli italiani nel 2015, che per non pochi parametri sono i cittadini campani ad avere bisogno di maggiore assistenza sanitaria. Il diabete colpisce il 4,5% dei residenti in Piemonte e il 6,7% in Campania; la bronchite cronica il 5,2% in Piemonte e il 5,8% in Campania; l’osteoporosi il 6,7% in Piemonte e il 7,5% in Campania. E’ marcata la differenza per mortalità per tumore in età adulta (10,7 per 10mila residenti di 20-64 anni in Campania e 9,3 in Piemonte). Il dato riassuntivo della “speranza di vita in buona salute alla nascita” è di 59,4 anni in Piemonte e di 57,3 anni in Campania. Ci si aspetterebbe un maggiore impegno per la sanità campana e, invece, sul riparto 2017 ogni piemontese vale 1.840 euro e ogni campano 1.756.

 

Settimo puntino: meno posti letto dove la sanità è peggiore. Molti meridionali, a causa delle carenze del servizio sanitario locale, vanno a curarsi in altre regioni, con i costi a carico del proprio servizio sanitario regionale. Il decreto 70 del 2015 sui posti letto pesa la popolazione abbattendo o rialzando l’indice di posti letto – che in media nazionale è di 3,7 per mille – in base alla migrazione sanitaria positiva o negativa. In pratica se in un anno centomila pugliesi vanno a curarsi in Emilia Romagna, l’anno dopo una quota di posti letto della Puglia pari al 65% dei “posti letto equivalenti” si sposterà in Emilia Romagna, per cui i pugliesi avranno a disposizione ancora meno servizi e tenderanno a migrare di più.

 

Ottavo puntino: la via della Seta salta il corridoio europeo. I cinesi propongono di riaprire la storica Via della Seta e intanto si sono insediati in forze nel Pireo con la Cosco, contribuendo con 368 milioni a risanare i conti della Grecia. L’Italia per offrire un’alternativa ad Atene (latitudine 38° Nord), ha giocato le carte di Trieste, Venezia e Genova (latitudine 44°-45° Nord). Eppure allo stesso 38° parallelo del Pireo e con 1.200 miglia risparmiate rispetto ai porti del Nord Adriatico, l’Italia poteva presentare Gioia Tauro, che con 2,8 milioni di container movimentati nel 2016 è primo in Italia. Il porto calabrese è punto focale del Corridoio ScanMed, il più lungo d’Europa, che passa per 25 porti, 19 aeroporti, 45 piattaforme multimodali e 19 aree urbane strategiche tra le quali Amburgo, Berlino, Monaco, Roma e Napoli. Sembra perfetto per diventare il terminale della via della Seta. Invece il governo italiano nel contratto con Rete ferroviaria italiana al Sud ha deciso di ignorare lo ScanMed per un percorso merci a zig-zag che passa per Ancona e salta l’area demograficamente più interessante di Roma e di Napoli, nonché gli interporti di Nola e di Marcianise.

 

Nono puntino: connettersi con i fondi Ces. Che idea ha l’Italia del proprio sviluppo di infrastrutture? Per capirlo è utile scorrere l’elenco dei 71 progetti che l’Italia nel 2015 ha chiesto all’Europa di cofinanziare con i fondi Cef (Connecting Europe Facility). Quasi tutte le richieste erano dirette a rafforzare il sistema di infrastrutture del Nord con Ravenna, come limite meridionale. Infatti a chiusura del bando i progetti sotto coordinamento italiano giudicati da Bruxelles meritevoli di cofinanziamento comunitario siano stati 13, tutti nel Nord Italia, per un controvalore del cofinanziamento comunitario pari a 1,5 miliardi. Si va dal potenziamento dell’accesso ferroviario a Malpensa, al tunnel di base del Brennero. Persino il trasporto fluviale nella Val Padana riceverà un supporto finanziario tanto che l’Agenzia interregionale per il fiume Po sui intascherà fondi Ces per potenziare il trasporto merci su un fiume le cui oscillazioni di portata rendono nei periodi di magra più facile passeggiare che navigare.

 

Decimo puntino: mecenati con lo sgravio. L’Art Bonus da tre anni garantisce a chi sostiene l’arte uno sconto fiscale record del 65%. Ma non decolla nel Mezzogiorno. Sui primi 200 milioni di euro raccolti, i monumenti di cui è ricco il Sud Italia hanno beneficiato di appena 3,8 milioni. Meno del 2%. Un solo attrattore al Nord, il Teatro di Modena, ha ricevuto gli stessi 3,8 milioni dei 132 progetti presentati nell’intero Mezzogiorno. Perché al Sud si dona meno? Per minore presenza di soggetti economicamente forti, visto che i grandi donatori in Italia sono le fondazioni bancarie e i gruppi industriali. Il meccanismo del bonus fiscale si traduce in una perdita secca per il Mezzogiorno. Su donazioni di 200 milioni; lo Stato, a causa del 65% di sconto fiscale, ha perso 130 milioni di gettito, dei quali 44 milioni sarebbero andati al Mezzogiorno. Grazie all’Art Bonus, i 130 milioni statali sono diventati 200 milioni privati, con beneficio per l’Italia nel suo insieme. Ma nel Sud i 44 milioni statali si sono ridotti a scarsi 4 milioni privati.

Undicesimo puntino: il turnover negli atenei. Nelle università si è appena usciti da una fase di stretta sul turnover: il 50% dei posti disponibili nel 2014 e 2015, il 60% nel 2016, l’80% nel 2017 per arrivare al 100% da quest’anno. Valori da intendere come medi. Infatti sul turnover dei professori e ricercatori si è imposto un tetto più severo dove i redditi familiari sono inferiori. A parità di iscritti, l’Alma Mater di Bologna incassa dalle famiglie 118 milioni mentre la Federico II di Napoli 77 milioni. In più, Bologna attira fondi privati per 6 milioni e la Federico II per un terzo. In base alla Costituzione, lo Stato dovrebbe ridurre tali distanze e invece con le regole sul turnover “medio”, a Bologna nel 2014-16 sono andati via 406 prof e sono state concesse 226 assunzioni, mentre alla Federico II nello stesso periodo sono andati via in 478 liberando appena 131 posti. E quel che è accaduto per due delle più antiche istituzioni universitarie d’Italia, si è ripetuto per l’insieme degli atenei: 600 posti di ricercatori che si erano liberati negli atenei del Mezzogiorno sono stati trasferiti al Centronord.

 

Dodicesimo puntino: in gara con la classifica precompilata. Si può essere premiati nel 2018 per un buon risultato del 2014? Nello sport no, nella ricerca italiana sì. I premi 2018-2022 ai «dipartimenti eccellenti» e i bonus per assumere 1.600 giovani ricercatori quest’anno finiranno soprattutto al Centronord, sulla base di una classifica chiamata Vqr (Valutazione qualità ricerca) che ha come riferimento gli anni dal 2011 al 2014. La Vqr porta una premialità nel riparto annuale del Fondo di finanziamento ordinario fino al suo aggiornamento, tuttavia la Vqr è stata utilizzata per selezionare a tavolino i 350 dipartimenti che potevano partecipare al concorso per i finanziamenti aggiuntivi del 2018-2022, pari a 1,3 miliardi di euro, destinati ai migliori 180 dipartimenti tra i 350 preselezionati. Prima ancora del fischio d’inizio del campionato, l’Università della Basilicata è stata del tutto tagliata fuori fino al 2022 perché nessuno dei suoi dipartimenti nel 2014 era nei primi 350. E non è finita. Con la manovra di bilancio 2018 si è trovato spazio per assumere 1.300 ricercatori nel sistema universitario italiano e altri 300 negli enti di ricerca: la ripartizione tra gli atenei tiene conto per legge ancora una volta della classifica Vqr del 2011-2014. In pratica il Mezzogiorno, che pesa un terzo del Paese, riceverà un quinto delle risorse.

 

Ultimo puntino, anzi un puntone da 70 miliardi. Eccoci alla fine. E’ apparso il disegno? Qui non si dà la risposta. Ma ogni volta che si è sottolineata l’iniquità o l’irragionevolezza di una formula, la reazione è stata: non si può cercare l’equilibrio nel singolo provvedimento. E allora per disegnare l’ultimo punto vediamo i dati complessivi, così come li riassume il rapporto 2017 dei Conti pubblici territoriali. La spesa totale della pubblica amministrazione, allargata alle società di Stato come le Ferrovie, è di 15.801 euro per residente nel Centronord e di 12.222 euro al Sud. Il Mezzogiorno rappresenta il 34% della popolazione e riceve il 28% della spesa, compresi i fondi straordinari che dovrebbero essere aggiuntivi. Uno scarto che vale 70 miliardi. Certo, il Nord è più ricco e quindi paga più tasse, da cui il risentimento di chi punta a trattenere sui territori la gran parte del gettito fiscale. Tuttavia, rispetto al Pil, lo sforzo fiscale del Centronord e del Mezzogiorno è uguale, come se in Italia ci fosse già una flat tax. In tutti i territori si pagano le medesime tasse in proporzione al reddito, quindi ovunque si dovrebbero ricevere i medesimi servizi. O c’è un disegno diverso?

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