Quando

Quando si dice “globalizzazione”, non si può intendere “occidentalizzazione”.
Quel tempo è finito. Per sempre.
Basta guardare al mercato audiovisivo indiano per capirlo. Una volta per tutte.

I numeri del theatrical

Ricevo un bel progetto da parte dei 100Autori, anche se noi da tempo con D’Autore siamo avanti sul piano della tutela del diritto inalienabile degli spettatori di fruire cinema di qualità.
Ecco alcuni numeri rielaborati su fonti Cinetel, riguardanti il mercato della sala in Italia.
Pleonastico ogni commento.

DETTAGLIO DATI SULLE SALE NEL 2011:
(fonte: Cinetel)

Incassi per tipologia di sala cinematografica

- le monosale hanno ca. il 16% degli schermi totali ma incassano l’8%;
- le multisale di città (tra i 2 e i 4 schermi) hanno il 26% degli schermi e incassano ca. il 18%;
- cineplex (tra i 5 e i 7 schermi) hanno il 17% degli schermi e il 17% degli incassi;
- multiplex (più di 7 schermi) hanno il 40% degli schermi e incassano il 55%.

Percentuali cinema italiano, per tipologia di sala

- nelle monosale il 50% delle presenze e degli incassi è per il cinema italiano;
- nelle multisale di città è al 42% delle presenze e il 38% degli incassi ca.;
- nei cineplex il cinema italiano è al 37% delle presenze e al 34% degli incassi ca.
- nei multiplex il cinema italiano è al 32% delle presenze e degli incassi ca.

Concentrazioni esercizio

UCI ha 428 schermi, THE SPACE ne ha 347 (dato Autorità garante della concorrenza e del mercato, 21 dicembre 2011). Questi due gruppi in totale controllano 775 schermi, cioè il 42% dei multiplex dai 5 schermi in su.

Poiché questa tipologia di multiplex totalizza il 73,5% di tutti gli incassi sala in Italia, in realtà questi due gruppi raggiungono una quota largamente superiore al 50% del mercato.

Le domande di Arcopinto

Adesso che finalmente il cinema italiano si è ripreso la testa della classifica grazie a Benvenuti al nord, che tiene a doverosa distanza Immaturi. Il viaggio, ma che comunque insieme, i due, fanno a pezzi i cinepanettoni; adesso che finalmente è arrivato Acab, l’opera prima sorprendente, perché incassa pur non essendo una commedia e dividendo gli spettatori, che abbandonano la sala delusi prima della fine del film o che rimangono fino ai titoli di coda gridando al grande film di caratura internazionale; adesso che purtroppo, non so per quale anno consecutivo, mi pare sette, il cinema italiano si ritrova, sorpreso, escluso dalla competizione dell’Oscar al miglior film straniero; adesso che il cinema italiano può dirsi onorato della presidenza della giuria di Cannes affidata al maestro Moretti; adesso, proprio adesso, in questa grigia mattina che promette pioggia, a me viene voglia di fare delle domande al cinema italiano.

Ma tu, che hai gridato compatto al capolavoro, il progetto di un film come The artist, in bianco e nero e muto, lo avresti mai preso in considerazione? O non ne avresti forse sbeffeggiato gli autori?

Perché nessuno dei tuoi ha sottolineato quanto siano devastanti le ultime decisioni delle commissioni ministeriali che, tornando a elargizioni a pioggia con i pochi spiccioli rimasti, di fatto impedirà la realizzazione di gran parte dei film finanziati o li costringerà a farli sulla pelle di chi lavora, senza però creare tornaconto a nessuno, tanto meno a se stesso? E che senso ha avuto stanziare duecentomila euro per Acab, che si sapeva – soprattutto per l’abilità, questa indiscutibile, nel costruire l’operazione – ne avrebbe potuto fare tranquillamente a meno?

E non ti vergogni del balletto sulla direzione del Festival di Roma a cui ci stai facendo assistere? Quale credibilità, ammesso ne abbia mai avuta una, conserverà quel festival, chiunque lo vada a dirigere?

E sei così sicuro che per concorrere all’Oscar siano sufficienti un tema forte e cinque indimenticabili inquadrature? E di contro, ma sei così sicuro che tu ti debba confrontare con l’Oscar quale fosse veramente il riconoscimento a cui tendere in maniera assoluta?

E il maestro Moretti, non era quello da cui comunque tenere sempre un po’ le distanze?

E non ti senti un po’ responsabile del fatto che forse è vero che oggi in Italia non siamo più in grado di fare The artist, o Miracolo a Le Havre, o Le nevi del Kilimangiaro? Ma non è forse colpa tua che hai relegato i potenziali autori di film come questi a stare fermi per anni o a essere inseriti in un mercato ghetto per poco più di ventimila spettatori quando dice benissimo, sparando in primo piano registi strateghi della comunicazione, che costruiscono prima delle operazioni commerciali e poi, se avanza, forse anche dei film?

Nel calcio quest’anno in serie A hanno esonerato dodici allenatori e non credo proprio finisca qui: ma perché tu, tra i tuoi che gestiscono il potere, non mandi mai a casa chi sbaglia o chi è incapace? Perché i cambiamenti sono sempre e solo dettati dai giochi di partito?

Perché io oggi pomeriggio devo andare a fare lezione nella scuola per eccellenza, il Centro Sperimentale di Cinematografia, e trovare la metà degli allievi a digerire il pranzo bighellonando nei corridoi senza sapere cosa fare? Perché non hai mai voluto capire quanto sarebbe importante quel posto?

A questo punto tu sei legittimato a chiedermi: ma tu che vuoi?

Io voglio che i miei allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, con i loro compagni, con chi ci crede, con chi vuole ancora sognare, si rimbocchino le maniche e ricostruiscano sulle tue macerie, nella piena consapevolezza di quello che hai combinato. E’ l’unica cosa che mi interessa, è l’unico motivo per cui continuo a combattere.

Fonte: Il fatto quotidiano

Il talento è intelligenza.

La parabola artistica del “nostro” Riccardo Scamarcio è motivo di orgoglio per noi tutti, che lo seguiamo da tempo e lo abbiamo per amico.
Il suo successo è la conferma che il talento è servito dall’intelligenza, oppure non è.
Con l’augurio di ogni bene, Riccardo.

“Riccardo Scamarcio non è più per nessuno lo Step di Moccia con cui aveva conquistato il cuore delle ragazzine. Ormai è il Romeo di Valerio Binasco con cui è tornato in scena, per la seconda stagione: prima in Sicilia, poi a Roma, infine a Milano. E grazie a Romeo non è più soltanto il bello del cinema italiano ma anche uno dei bravi, consacrato non solo dall’Ubu arrivato allo spettacolo, ma anche da un premio Recanati a lui medesimo che però, non avendolo ritirato, pare non gli verrà consegnato mai più. Romeo e Giulietta ha spinto perfino i sofisticati critici teatrali, malgrado il pregiudizio duro a morire che vuole il bello per forza un po’ scemo, ad ammettere che Scamarcio ha offerto una interpretazione intelligente: “La dovevo ai tanti giovani che sono venuti a vedermi – dice l’attore -. Bello. Bello. Bello. Bello esserci. Al “Biondo” di Palermo, le tre ore e passa di Shakespeare, sono state salutate con un entusiasmo da concerto rock. Grande soddisfazione”. Farà ancora teatro? “Non lo so. Il set e il palcoscenico hanno tempi non conciliabili”. Col teatro però un attore non bara, col cinema può farlo. “Mica tanto. Vero che sono linguaggi diversi, che l’attore sul palcoscenico gode della massima evidenza. Ma se uno è un cane, anche sul set si vede”.

Tra un Romeo e l’altro, comunque, Riccardo Scamarcio non si è fermato. Tutt’altro. Ha partecipato in piccoli ruoli di contorno a tre film stranieri: l’americano Nero fiddled di Woody Allen in un ruolo che è il più buffo della sua carriera; il francese e duro Polisse di Maiwenn Le Besco, documento tostissimo sulla pedofilia che sta per uscire da noi dopo aver fatto sfracelli in Francia; Effie di Lexton con Emma Thompson, racconto della relazione platonica tra il celebre critico d’arte John Ruskin e l’adolescente Effie Gray nel quale lui è un giovane seduttore veneziano figlio dell’aristocratica Claudia Cardinale.

Serve a farsi conoscere accettare piccoli ruoli in film non italiani? “Viviamo in Europa e i nostri politici ci dicono che l’Europa è una realtà – spiega Scamarcio -. Veramente l’Europa è un piccolo fazzoletto formato da tante culture forti, diverse e antiche, abituate, però, da secoli a convivere. Forse un domani sarà perfino una realtà. Per ora sto imparando l’inglese e il francese. Sto sperimentando altri stili di regia. Gli inglesi sono assai divertenti. Vorrei provare a comportarmida europeo”.

Se proprio all’estero Scamarcio dovrebbe lavorare nei prossimi mesi, intanto in Italia ha girato due film da protagonista: Il rosso e il blu di Piccioni con Margherita Buy, storia d’ambiente scolastico dove fa un supplente alle prese con una classe difficile e Cosimo e Nicole del semi-sconosciuto Francesco Amato, appena finito, storia di due ragazzi chiusi in una bolla d’amore che si romperà dopo l’impatto con il lavoro, la stabilità e i fatti del G8 di Genova. Ma come sceglie i film da fare? “Leggo e se è possibile mi sottopongo a un provino. È l’ideale per capire se sono adatto al ruolo. Se c’è un bel copione, poi, mi fa piacere lavorare con chi sta affacciandosi al mestiere come Francesco Amato. Non negarsi agli esperimenti è una necessità per chi vuol crescere e migliorare. Nella professione come nella vita”.

Inevitabile con Scamarcio passare dal cinema alla politica, perché, prima che attore, Scamarcio si sente cittadino,un cittadino vagamente antagonista e molto informato. E come tale giudica, riflette, apprezza, critica, sceglie. Anche cosa interpretare e cosa no. “In pugliese si dice “mi può” per dire mi contiene, mi appartiene, mi fa star bene. Io sono un iper-attivo e il set “mi può”. Ma sono pure un cittadino e “mi può” la politica. Molte cose non mi convincono”. Ce l’ha con i professori? “No, loro pensano a mettere rattoppi, senza guardare alla crisi del nostro modello di sviluppo dell’Occidente. Ce l’ho con i tagli ai treni che vanno al Sud, in Calabria, in Sicilia. Sono pezzi d’Italia. Voglio proprio vedere quale sarà il privato che ripristinerà quelle linee! Tocca allo Stato esserci dove serve. Lo dice perfino Obama, presidente del paese che è il paradiso del capitalismo più classico. Servono regole nuove”. Proprio lei che non ha sopportato quelle della scuola, invoca le regole… “Con l’età ho imparato che servono. Le regole vanno conosciute e rispettate quando si deve e infrante quando si può. Nell’arte sicuramente. Ma, credo, perfino nei destini di una società”.
”

Fonte: La Stampa

La nave dolce e quella amarissima

L’8 agosto del 1991 la Vlora, nave albanese che aveva ancora a bordo lo zucchero caricato nel porto de L’Havana e non ancora scaricato in quello di Durazzo, arriva caracollante nel porto di Bari con il suo impressionante carico umano di quasi 20.000 albanesi. Questa storia, raccontata da Daniele Vicari, sarà presto un (bel) documentario la cui idea è nata da me e da Gigi De Luca qui, in queste stanze della Apulia film commission.

Il 28 marzo 1997, pochi anni dopo, nel canale d’Otranto la nave albanese Kater i Rades, con più di 100 esseri umani a bordo, viene speronata dalla corvetta italiana Sibilla. 57 furono i morti accertati e 24 i corpi mai recuperati. Una tragedia immane che impallidisce dinanzi alla pur tragica vicenda della Costa Concordia, che ha inondato i media di tutto il mondo.

Le riflessioni da fare sono tante, soprattutto sul ruolo dei media e sull’importanza dell’immagine. Una piccola nave speronata non fa storia, come non la fanno le vite disumane dei suoi migranti affondati con essa.

Per questo ci viene in soccorso l’arte, con il suo carico immaginifico di umanità e visione.

Grazie a Gigi De Luca, il nostro Vice Presidente, che ho visto prodigarsi come mai per arrivare all’obiettivo insieme artistico, tecnico, amministrativo, organizzativo; e grazie al collettivo di artisti, operai, amministratori, oggi la Kater i Rades, ancorata su di uno scivolo di cemento, é di nuovo fluttuante tra le onde di vetro del mare immaginario in cui galleggiano le anime di morti che chiedono un pensiero alto ed una pietà che si rinnovi nello spirito dell’impegno affinché mai più sia necessario affrontare i pericoli del mare per trovare conforto ed una vita migliori.

Fonti: Shqiptariiitalise Giornale di Puglia Comune di Otranto

Articolo 18 & Co.

Lo Statuto dei diritti dei lavoratori è la legge numero 300 del 1970.
Frutto maturo degli anni di lotta sociale e politica precedenti, fu redatta, fra gli altri, dal grande giuslavorista Gino Giugni, un socialista riformista di enorme spessore culturale e padre nobile della migliore scuola giuslavorista italiana. Insegnò anche a Bari dove ha formato i suoi migliori allievi (alcuni dei quali sono stati miei docenti universitari e me ne glorio).
Tale legge è stata poi innovata dalla sua “editio minor”. La numero 30 del 2003. Uno zero in meno che racconta molte cose…

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di cui oggi tanto si parla, dice letteralmente questo:

“Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.”

Dunque impedisce che, nelle aziende con più di 15 dipendenti un lavoratore venga licenziato “senza giusta causa o giustificato motivo”. In altri termini è una legge che evita ogni sopruso e tutela la parte più debole nel sinallagma contrattuale di lavoro: il salariato.
Semplice e chiaro.

Parlare di articolo 18 come tabù, dunque, mi sembra una provocazione inutile. L’articolo 18 non va toccato perché evita soprusi e discriminazioni. Il manager o l’imprenditore che vogliano allontanare un dipendente di cui non hanno più fiducia, devono giustamente invocare un “giustificato motivo” e non possono cacciarlo perché ritenuto antipatico o fastidioso. Tutto qui.

Altra cosa, invece, a sinistra come a destra, è la considerazione di un sistema di inquadramento unico che favorisca l’accesso al lavoro. Lì dove, invece, l’articolo 18 favorisce l’uscita dal lavoro!

E qui si, occorre svolgere un dibattito senza tabù.
Io penso, da manager democratico dotato cioè di sensibilità politica e sociale, che un contratto unico possa rappresentare un elemento di grande vivacità e tutela. Soprattutto se accompagnato da un modello di flexsecurity alla danese, che consenta di avere un paracadute che protegga il lavoratore, espulso dal ciclo produttivo, con un periodo di formazione pagata dallo stato e che lo incentivi a trovarsi un nuovo lavoro.
Parallelamente, sarei molto felice di assumere i tanti collaboratori a progetto a tempo determinato, se solo il costo del lavoro fosse compatibile con le risorse rivenienti dai progetti che gestiamo e attiviamo. Ma questo tema chiama in causa la fiscalità generale e dunque va trattato con molta consapevolezza tecnica e grande sensibilità politica.

In sintesi estrema io faccio il tifo perché si trovi un accordo che tuteli i lavoratori in entrata e in uscita e che garantisca ai datori di lavoro di spendere molto di meno – in termini contributivi e pensionistici – per il lavoro stabile.

E’ una grande sfida. La più importante, non per Monti e la Fornero, ma per tutte le classi dirigenti del Paese, comunque siano esse collocate.
Speriamo sappiano coglierla in pieno.

Ossigeno puro.

Senza commento. Ma con molta felicità.

“Al fine di favorire la creazione di nuove imprese nel settore della tutela dei diritti degli artisti interpreti ed esecutori, mediante lo sviluppo del pluralismo competitivo e consentendo maggiori economicità di gestione nonché l’effettiva partecipazione e controllo da parte dei titolari dei diritti, l’attività di amministrazione e intermediazione dei diritti connessi al diritto d’autore di cui alla legge 22 aprile 1941, n.633, in qualunque forma attuata, è libera; con decreto del presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi entro tre mesi dall’entrata in vigore della presente legge e previo parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, sono individuati, nell’interesse dei titolari aventi diritto, i requisiti minimi necessari a un razionale e corretto sviluppo del mercato degli intermediari di tali diritti connessi; restano fatte salve le funzioni assegnate in materia alla Società italiana autori ed editori (Siae)”.

Articolo 2 del decreto sulle liberalizzazioni varato in data 20.1.2012 dal Consiglio dei Ministri italiano.

E se avesse ragione?

E se, dico se, avesse ragione lui?

“Riformare la governance della Rai, ispirandosi alla Bbc. Un’autorità super partes (il capo dello Stato) dovrebbe nominare un trust con funzioni di indirizzo e controllo, che selezioni i pochi manager che compongono il comitato esecutivo, guidato da un amministratore delegato con ampi poteri. Questa è in sintesi la ricetta di Giorgio Gori, ex presidente di Magnolia ed ex direttore di Canale 5, pubblicata dal “Corriere della sera”. Bisognerebbe dividere nettamente i canali preposti al servizio pubblico (RaiTre, Rai5, RaiNews, RaiYoYo, RaiGulp, RaiSport, RaiSport 2, RaiScuola, RaiStoria), a cui andrebbe la totalità del canone, a fronte di una completa rinuncia agli introiti pubblicitari, da quelli esplicitamente commerciali (RaiUno, RaiDue, Rai4, RaiPremium, RaiMovie, RaiHd), alimentati esclusivamente dalla pubblicità, portata però a valori analoghi a quelli delle reti private.”

Fonte:E-duesse

Mai stato più d’accordo con Marco Giusti

Leggo, condivido e posto.

Ci risiamo. Tutti a piangere anche quest’anno per l’esclusione del film italiano candidato all’Oscar per il Miglior Film Straniero, in questo caso il non troppo convincente “Terraferma” di Emanuele Crialese, che non arriva neanche alla spiaggetta della short list dei nove titoli scelti su 63 da scremare ulteriormente al numero di cinque. Po-po-po-popio un’altra figura di merda! Perfino Paolo Mereghetti stamane si domanda acutamente se non ci sia qualcosa che non funziona nella nostra diplomazia cinematografica internazionale. Ma va?
Del resto da un paese che da anni sembra guidato allo sbaraglio economicamente e culturalmente dal Comandante Pasquale Schettino (“Torna a bordo, cazzo!”) che si può pretendere? Per fortuna che l’ex-ministro Galan (sì, è stato ministro dei Beni culturali…) ci ha regalato delle nomine eccellenti come Gigi Marzullo nella commissione ministeriale per la promozione del nostro cinema e tutto il gruppone del suo programma “Cinematografo” in quella per vagliare le opere prime e seconde (da Anselma Dell’Olio a Valeria Licastro Scardino, ex segretaria di Confalonieri e moglie dell’onorevole Martuscello, da Antonia Postorivo, moglie del senatore PDL Antonio D’Alì a Carlo Cozzi, critico de Il Secolo, da Gianvito Casadonte, direttore del Magna Grecia Film Festival agli eterni Enrico Magrelli e Valerio Caprara…).
Tutta gente esperta che, mentre Medusa sta tagliando più della metà del numero di film che aveva prodotto l’anno scorso, saprà risollevare le sorti del nostro cinema migliore e la sua immagine nel mondo.
Ora, detto che probabilmente è stato uno sbaglio scegliere “Terraferma” come film italiano dell’anno, preferendolo a “Habemus Papam” di Nanni Moretti che almeno aveva una storia forte e originale col papa che si perde per Roma, diciamo anche che dalla rosa dei nove titoli sono stati esclusi registi importanti come Zhang Yimou, Ann Hui, Kaneto Shindo, Nikita Mikhalkov, Nuri Bilge Ceylon e film di grande successo internazionale come il brasiliano “Tropa de Elite 2″ di José Padilha, il francese “La guerre est declarée” di Valérie Donzelli, lo svedese “Beyond” di Pernilla August, il libanese “E ora dove andiamo?” di Nadine Labaki.
Inoltre, tra i nove finalisti, a parte il bellissimo film iraniano “A Separation” di Asghar Farhadi, che è indicato da mesi come sicuro vincitore del premio, non troviamo proprio grandissimi titoli, ma una serie di opere provenienti da cinematografie emergenti e del tutto diverse scelti, crediamo, per i motivi più disparati che hanno in comune solo dei soggetti forti.
Non c’è, ad esempio, nessun film francese, tedesco, italiano, spagnolo, giapponese, ma il belga “Bullhead” (“Rundskop”), opera prima di Michael R. Roskam, distribuito dalla potente Celluloid Dreams, dedicato alla mafia degli ormoni delle mucche, c’è il taiwanese “Warriors of the Rainbow”, opera prima di Wei Te Sheng, prodotto dal potente John Woo e presentato in concorso a Venezia, 24 milioni di dollari di budget e 30 già incassati in patria, violentissimo kolossal bellico sulla rivolta della popolazione indigena di minoranza Seediq a Taiwan durante l’invasione giapponese (questi Seediq avevano l’originalità di tagliare e conservare le capocce tagliate dei nemici…).
E, ancora, c’è il marocchino, anche se di co-produzione francese, “Omar m’a tuée”, opera seconda di Roschy Zen, già attivissimo come attore in Francia, c’è il canadese di minoranza francese “Monsieur Lazhare” di Philippe Falardieu, storia di un insegnante algerino in una scuola elementare del Quebec, la commedia danese “Supeclàsico” di Ole Christian Madsen e due immancabili film sui grandi temi ebraici che fanno impazzire il mondo di Hollywood, il polacco (ma coprodotto da Germania, Francia e Canada) “In Darkness” della veterana Agniezka Holland, che ci porta nella Polonia occupata dai nazisti dove un ladro di professione salva decine di ebrei nascondendoli nei sotterranei della città di Lvov, e il curioso israeliano “Footnote” dell’ebreo newyorkese Joseph Cedar, dedicato a uno scontro accademico tra studiosi di Talmud che sono padre e figlio.
Il figlio è un genio e il padre un cialtrone, solo che quando il più celebre premio accademico d’Israele viene vinto ancora una volta dal figlio, l’inviato della giuria si sbaglia e manda la convocazione al padre creando non poco imbarazzo nel figlio. Andrà a finire malissimo, ovviamente. Non ci pare, però, che nell’elenco dei nove titoli della short list per l’Oscar al Miglior Film Straniero, a parte qualche distributore o produttore importante, ci sia stato tanto lavoro di diplomazia internazionale.
Certo, il film taiwanese prodotto da John Woo (e gloria di Marco Muller che lo ha fortemente voluto a Venezia) uscirà nelle sale americane il 14 febbraio in versione ridotta (due ore al posto delle quattro e mezzo originali), il film di Cedar e quello della Holland sono già pronti per il mercato americano, ma non si può dire la stessa cosa di tutti i titoli.
Inoltre ci sono molti film dedicate a minoranze etniche, non solo i fantomatici Sediq, ma i fiamminghi, i francesi del Quebec, ci sono film parlati in danese, iraniano, polacco. E non è vero neanche che contano così tanto i festival americani. I nove titoli vengono da nove festival diversi, Cannes, Venezia, Berlino, Toronto compresi.
La verità è che il nostro cinema sembra non produrre più storie, soggetti originali. Siamo ingolfati da una parte nelle commedie, che vivono solo nel nostro mercato (al massimo arrivano in Spagna), e da un’altra parte in una serie di film da festival, distribuiti da Medusa e da Rai Cinema, che non hanno nessun successo economico in patria, non vincono premi nei festival, a parte i casi già lontani di “Gomorra” e “Il Divo”, e difficilmente riescono a avere una vita internazionale.
Seguitiamo a produrre come film da festival titoli che non possono competere spesso con quelli stranieri in originalità e riuscita (vedi Avati, Crialese, Comencini, più adatti al mercato interno), quando sarebbe meglio puntare su un cinema più estremo e coraggioso.
Che magari non porterà a un successo immediato (Bruni, Gipi, De Gregorio, Rohrwacher), ma può essere potenziato. Senza un vero cinema d’arte da esportare, a parte i casi isolati di Garrone, Sorrentino, Moretti, Bellocchio e altri due o tre nomi di autori, è un bel po’ difficile parlare di colpe della nostra diplomazia.
Le colpe sono dei nostri produttori che seguitano a non sperimentare, di registi che fanno cinema da festival come se girassero “Un posto al sole”, dei direttori dei festival che accettano dai nostri produttori titoli modesti, dei critici dei giornali che spesso non sono all’altezza del loro compito e illudono autori e produttori creando inutili attese, della commedia borghese che si mangia tutti i budget, anche quelli ministeriali, giocando su storie ovvie cercando di sopravvivere a se stessa (e allora cento volte meglio “I soliti idioti” o “Che bella giornata”).
Se non ricostruiamo un cinema, degli autori, delle storie, sarà un po’ difficile pretendere di arrivare non tanto agli Oscar, ma almeno a riempire qualche sala. Magari la crisi, che ci obbligherà a produrre film a basso costo, ci potrebbe portare qualche buona sorpresa. Che magari arriverà, visto che stanno uscendo proprio adesso film interessanti e difficili come “Acab” di Stefano Sollima e “Diaz” di Daniele Vicari.
Ma, in generale, non crediamo che la strada che vogliano intraprendere i nostri produttori sia quella di finanziare film realistici di denuncia o la sperimentazione illuminata a basso costo, con l’attento sguardo della commissione cinema marzulliana, o quella di limitare i budget delle nostre star maggiori e dei nostri più inutili registi.
Certo, con un cinema così mal ridotto, si rischia di finire non alla serata degli Oscar ma dritti sugli scogli del Giglio, senza nessun capitano De Falco che almeno ci urli “Torna a bordo, cazzo!”.

Marco Giusti per Dagospia
Fonte:Dagospia

I Sud

Io non so se esistono più Sud. So che esiste e ch’io vivo il mio Sud. Per questo mi irrito quando i cineasti ci chiedono di portarli in una Puglia che non esiste più, arretrata, ancestrale, immobile come in un vecchio dagherrotipo.

Il mio Sud è moderno, competitivo, competente, aggiornato, evoluto, europeo con lo sguardo rivolto verso sud e verso est. Se non l’avete ancora capito noi siamo un Sud nuovo, non stereotipato. E non dobbiamo chiedere scusa a nessuno. E non dobbiamo ringraziare alcun nord, ma solo noi stessi.